Giovanni Volpe quarant’anni dopo
Tra gli anniversari che sono ricorsi in questo 2024 che declina, ci sono i quaranta anni dalla morte di Giovanni Volpe. Nato nel 1906, Giovanni Volpe, era figlio del celebre storico e accademico d’Italia Gioacchino Volpe (1876-1971). Si era laureato in ingegneria e aveva creato un’impresa di costruzioni affermatasi con successo in diversi paesi del mondo. Nel 1964, con spirito di mecenate, fondò a Roma la casa editrice omonima, a cui affiancò due riviste, “La Torre” e “Intervento”, e poi la Fondazione Gioacchino Volpe, dedicata alla memoria del padre. Sono stato segretario di questa Fondazione dal 1973 al 1984 e ho avuto perciò una frequentazione quasi quotidiana con l’ingegner Volpe, di cui non deve essere persa la memoria. Credo di poter dire che nessuno ha contribuito quanto Giovanni Volpe ad alimentare in Italia la cultura di destra, cattolica e anticomunista, del secondo Novecento, pur non ricevendo dal partito di destra di allora, il Movimento Sociale, quel laticlavio di senatore che avrebbe meritato e che non avrebbe disdegnato.
«Voglio fare un ospedale per le anime», disse all’inizio della sua attività editoriale e ad essa dedicò da allora ogni pensiero e momento della sua vita. Il catalogo della casa editrice nel corso di vent’anni si arricchì di un formidabile ventaglio di autori, conservatori, cattolici, nazionalisti. Basti ricordare la traduzione, in lingua italiana, di opere quali Luce del Medioevo di Régine Pernoud; L’eresia del XX secolo di Jean Madiran; La sovversione nella liturgia di Louis Salleron; Diagnosi, di Gustave Thibon; La grande eresia e L’intelligenza in pericolo di morte di Marcel de Corte; Le mie idee politiche di Charles Maurras, e molte altre. Ricordando queste opere, va ricordato anche il fedele tipografo dell’ingegner Volpe, Franco Pedanesi, scomparso nel 2009, prezioso cooperatore di un’opera editoriale che vide la pubblicazione di centinaia di libri nello spazio di vent’anni.
Giovanni Volpe era un uomo burbero, alto e imponente. Marcello Veneziani, uno dei giovani che gli furono vicini, ne ricorda l’impressione di signore rinascimentale che ne ebbe quando lo incontrò per la prima volta: «mi colpì la sua bellezza senile, priva dei segni crepuscolari dell’età grave, il suo incedere dignitoso e gioviale, la fierezza del suo bianco onor del mento, che rievocava suo padre, addolcita da un volto quasi rutilante ed aperto al sorriso, la sua parola ricca e vigorosa”». Però, malgrado le soddisfazioni sul lavoro la sua vita familiare non era stata facile e da questo nasceva una severa tristezza nel suo sguardo. Egli non era solo un mecenate e un organizzatore culturale, ma un grande intellettuale, appassionato di arte e di archeologia: discuteva con gli autori dei libri che pubblicava, correggeva le bozze e allegava a “La Torre” da lui diretta un “Quartino dell’Editore”, in cui ogni mese interveniva sulla politica e sul costume. «Un trittico sempiterno lo accompagnava: Dio, Patria e Famiglia», ricorda ancora Veneziani. «Quei valori, intorno a cui il suo universo interiore ruotava, saranno a molti remoti, estranei, oppure saranno incrinati, oscurati, sospesi. Ma nessuno può negare a Volpe di aver amato e servito quei valori fino in fondo con una coerenza di puro cristallo».
Giovanni Volpe era un uomo di destra a tutto tondo, monarchico, anticomunista, cattolico tradizionale. Molte riunioni dell’associazione “Una Voce” per la difesa del latino e del canto gregoriano, allora presieduta da Carlo Belli, si tenevano nella sua casa di Via Michele Mercati ai Parioli. Egli stesso, dopo l’esplosione del “caso Lefebvre”, fu autore nel 1976 di uno scritto su La doverosa impossibile obbedienza, in cui si esprimeva con queste chiare parole: «Non c’è dubbio che l’obbedienza al Papa sia uno dei pilastri su cui si fonda la Chiesa, ma si presume che a monte vi sia la Rivelazione e che il Papa, a cui noi dobbiamo obbedienza, sia a sua volta obbediente ad essa ed alla Tradizione multisecolare della Chiesa, non immobile ma nemmeno in evoluzione con il mondo, con i suoi dogmi, i suoi riti, il suo costume, se è vero che Stat Crux dum volvitur mundus” . (…) Si deve obbedienza al Papa, ma il Papa deve obbedienza al Verbo e alla Tradizione apostolica. Si deve obbedienza al Papa, ma spetta al Papa dare a questa obbedienza il carattere della possibilità».
La Fondazione Volpe organizzava ogni mese di settembre, in Romagna, seminari per i giovani, e tutte le primavere incontri internazionali che riunivano a Roma studiosi antiprogressisti di tutto il mondo. I temi che venivano affrontati erano Autorità e libertà, La memoria storica, L’avvenire della scuola, Il non primato dell’economia, La tradizione nella cultura di domani, con invitati come Erik von Kuenhelt-Leddhin, Eugen Weber, Julien Freund, Augusto Del Noce, Marcel De Corte, Ettore Paratore, Massimo Pallottino, Sergio Ricossa, Marco Tangheroni e molti altri.
Il suo ultimo articolo su “La Torre” di aprile 1984 aveva come titolo Mistificazione ed errori e criticava le posizioni di quegli intellettuali di destra che giustificavano i missili sovietici puntati sulle capitali europee, attribuendone la colpa all’«accerchiamento» della Russia da parte dell’Occidente. «Il concetto di una Russia accerchiata dal Nemico – scriveva con parole che oggi paiono profetiche – si accentua sincronicamente all’espandersi della dominazione russa, e dà all’atteggiamento bellicoso della Russia il crisma di una guerra a cui la Russia è costretta per legittima difesa». «Non possiamo muover guerra alla Russia – concludeva – non sappiamo che cosa sostituire al suo comunismo una volta debellato, cerchiamo di opporci a che altri popoli cadano sotto le grinfie sovietiche e diventino preda di una nuova mutazione biologica o caratteriale e facciano di noi dei vinti. Fissato chiaramente che il comunismo è il nostro primo nemico, riconosciuto il suo certo valore storico, lasciamo stare le dannazioni gratuite ed a buon mercato e trattiamolo da Nemico, come esso tratta noi. Tutto allora sarà più chiaro, il tempo dei sofisti sarà finito, il tempo della confusione tra diritti e doveri sarà cessato».
Anche nel suo ultimo discorso, pronunciato a Palazzo Della Valle, in Corso Vittorio, la sera del 15 aprile 1986, a conclusione del XII Incontro della Fondazione, dedicato al tema Sì alla pace, no al pacifismo, Giovanni Volpecriticò il pacifismo degli intellettuali che di fronte alla minaccia sovietica assumevano una posizione “nazional-neutralista”. Al termine del discorso, dopo aver ringraziato i presenti, reclinò il capo e morì, in piedi, come si addiceva a un combattente quale egli fu. Era la Domenica delle Palme. Sulla sua scrivania, il giorno dopo la sua morte fu trovato un biglietto con queste parole, forse le ultime da lui scritte: «La Russia è il nostro nemico. O Roma o Mosca ci fu ripetuto».
I funerali furono celebrati il 17 aprile secondo il Rito romano antico, nella chiesa di San Salvatore in Lauro, da don Emanuele du Chalard, della Fraternità San Pio X, che ne ricordò il servizio alla Chiesa, attraverso i libri, i convegni e tutte le sue iniziative culturali. Su “La Torre” nell’ottobre 1976 Volpe aveva scritto: «La Chiesa, abbandonata, tradita, rinnegata, soffre, sembra esser vinta, eppure anch’essa secondo le profezie risorgerà il terzo giorno. E come le sofferenze di Cristo mossero i popoli ad amarlo, così le sofferenze della Chiesa muovano tutti noi verso di Essa, perché risorga; aiutiamola noi, che pur siamo la Chiesa, mentre certamente la aiuterà Dio. A questa chiamata che è insita nella sua sofferenza, noi rispondiamo facendo nostra la parola di S. Tommaso: Resistete forti nella fede, resistete, aggredite, sperate».
Queste parole e l’esempio della vita di Giovanni Volpe ci ricordano che la crisi della Chiesa e della società occidentale non risale agli ultimi anni, ma viene da lontano e ha conosciuto uomini che con generosità, coraggio e profondità di giudizio posero le premesse di una resistenza culturale di cui noi siamo solo i continuatori.