I cattolici di fronte alle elezioni americane
Esiste una dottrina cattolica del male minore che si può riassumere in questi termini:
Non si può mai commettere in maniera positiva e diretta il sia pur minimo male;
per evitare un male maggiore si può tollerare un male minore commesso da altri, a condizione di non approvarlo in quanto tale e di ricordare l’esistenza di un bene maggiore a cui tendere.
Questa dottrina è fondamentale per orientarsi in un’epoca confusa in cui si è persa la nozione del principio: «Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu»(San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-IIae, q. 18, a. 4 ad 3).
Alla luce di questo principio, un cattolico non può mai votare o approvare una legge abortista, neanche minimale, ma può votare per un candidato che non sia un antiabortista integrale. Per questo è lecito ad un cattolico americano votare per Donald Trump, le cui posizioni sull’aborto, come osserva Edward Feser, lasciano molto a desiderare . Trump è infatti favorevole a mantenere l’aborto legale nei casi di stupro, incesto e pericolo della madre e si limita a trattare l’omicidio di Stato come una questione puramente procedurale, relativa al governo, centrale o locale, che dovrebbe regolarla. Inoltre la piattaforma del Partito Repubblicano nell’incontro di Milwaukee dello scorso 8 luglio, per la prima volta in quarant’anni non ha incluso un riferimento al divieto di aborto a livello nazionale. Tuttavia Trump non fa dell’aborto una bandiera, a differenza della sua avversaria Kamala Harris. Il programma socialista ed egualitario della Harris prevede il ripristino del diritto costituzionale all’aborto, sancito dalla sentenza Roe v. Wade del 1973 e annullato dalla decisione della Corte Suprema del 24 giugno 2023. Inoltre, durante le primarie del 2019, Kamala ha annunciato che avrebbe approvato al suo primo giorno alla Casa Bianca. l’Equality Act, per garantire ogni forma di diritto al mondo Lgbt (sul tema, cfr. il suo libro The Truths we hold. An American journey, Vintage, 2021, pp. 112-120).
Il candidato democratico alla vicepresidenza, Tim Walz, membro di punta del Partito Democratico Contadino Laburista del Minnesota, è, se possibile, ancora più di sinistra di Kamala Harris. Malgrado i media insistano sulla moderazione di Kamala Harris, se i democratici vinceranno a novembre il processo di decadenza morale degli Stati Uniti sarà accelerato dal ticket Harris-Walz, tra i più progressisti nella storia di questo Paese.
E’ una pena che il Partito Repubblicano non sia riuscito a produrre alcun candidato migliore di Donald Trump, ma Kamala Harris rappresenta certamente il male maggiore da evitare. Trump merita di essere criticato su molti punti, ma non è lecito regalare la vittoria alla Harris, votandola o astenendosi dal voto.
Sul piano della politica internazionale, sia nel caso che vinca Kamala Harris che Donald Trump, è difficile che ci siano grandi variazioni. Si dice che sotto Trump gli Stati Uniti si sgancerebbero dall’Europa e dalla Nato, ma si tratta di una prospettiva esagerata. Kamala Harris appartiene alla scuola dei wilsoniani (dal nome di Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921); Trump a quella dei jacksoniani (dal nome di Andrew Jackson, presidente dal 1829 al 1837). I primi sostengono che gli Stati Uniti hanno il dovere morale di diffondere i valori democratici nel mondo, i secondi ritengono che gli Stati Uniti non dovrebbero trovare motivi di conflitto all’estero. Tuttavia, come osserva lo storico Walter Russell Mead, l’opinione dei jacksoniani concorda con quella del generale Douglas MacArthur (1880-1964) secondo il quale in caso di guerra, «non c’è alternativa alla vittoria» (Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Garzanti, Milano 2002, p. 17).
Durante il suo primo mandato presidenziale, Donald Trump si fece fotografare nello Studio Ovale con un ritratto alle sue spalle del presidente Jackson, le cui statue sono finite nel mirino degli attivisti “woke” con l’accusa di essere stato un razzista e uno schiavista. Lo stesso Mead ha sottolineato la connessione tra Trump e Jackson in un saggio pubblicato nel 2017 sulla rivista Foreign Affairs. Il candidato alla vice presidenza Vance, da parte sua, in un’intervista rilasciata a New Statesman il 14 febbraio 2024, ha sottolineato che l’approccio “jacksoniano” di Trump, è «un misto di estremo scetticismo verso l’intervento all’estero, combinato con una postura estremamente aggressiva quando si interviene». Gli Stati Uniti, osserva Mead, non possono intraprendere una importante guerra internazionale, senza il sostegno dei jacksoniani e, una volta iniziata, non possono interromperla se non alle loro condizioni.
La politica estera di Kamala Harris è certamente più interventista di quella di Trump, tuttavia malgrado la sua tendenza isolazionista, il candidato repubblicano ha come priorità l’interesse nazionale dell’America. La fine della Nato e la caduta dell’Europa sotto il dominio russo sono negli interessi di Washington? Trump vuole concentrarsi sullo scenario che ritiene più inquietante per gli Stati Uniti, quello dell’Indo-Pacifico, ma l’Europa costituisce un perno fondamentale della potenza imperiale americana. Se sarà eletto, premerà verosimilmente sull’Europa, perché trovi in sé stessa le risorse economiche e militari per difendersi, ma non la abbandonerà certo al suo destino.
I democratici accusano Trump di essere sostenuto da Putin, ma l’interesse prioritario del dittatore russo non è la vittoria di Trump né quella di Harris, ma piuttosto una situazione di destabilizzazione del continente americano, che faciliti i suoi progetti di espansione nell’Europa orientale. Lo spettro della guerra civile, o quantomeno di forti tensioni interne, è sempre vivo negli Stati Uniti e non c’è da meravigliarsi se lo scenario che Putin preferirebbe sarebbe quello di un crollo dell’Impero americano analogo a quello dell’Impero russo del 1991.
D’altra parte, il vero aiuto a Putin non è dato da Trump, ma da tutti coloro che sono convinti che la guerra russo-ucraina sia la conseguenza di una legittima reazione del Cremlino all’imperialismo americano. Se questo fosse vero, l’America sarebbe il nemico primario dell’Europa, come ha sempre pensato l’estrema sinistra europea prima e dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Eppure appare evidente a qualsiasi uomo di buon senso che la dipendenza economica e militare dell’Europa dagli Stati Uniti resta un male minore rispetto a una situazione di vassallaggio nei confronti della Russia, che sta diventando a sua volta un paese vassallo della Cina comunista.
Accettare il male minore non significa rinunciare al bene maggiore, che non ha nulla a che fare né con il liberalismo americano né con il dispotismo russo-cinese. L’ideale irrinunciabile è «l’instaurazione di tutte le cose in Cristo», ovvero la restaurazione della Civiltà cristiana, come l’Occidente l’ha conosciuta nel Medioevo, ma spinta a un più alto grado di perfezione. San Pio X ne ha indicato la strada: «Non si deve inventare la civiltà, né si deve costruire la nuova società tra le nuvole. Essa è esistita ed esiste: è la Civiltà cristiana, è la società cattolica. Non si tratta che di instaurarla e restaurarla incessantemente nelle sue naturali e divine fondamenta, contro i rinascenti attacchi della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà: Omnia instaurare in Christo (Ef. I, 10)» (Lettera Notre Charge Apostolique, del 25 agosto 1910).