La vittoria di Trump e il futuro dell’Europa
Donald Trump è il 47esimo presidente degli Stati Uniti. La sua vittoria non è stata di stretta misura, ma è avvenuta con un largo margine. Trump è stato incoronato da un voto popolare che gli ha permesso di conquistare anche la maggioranza della Camera e del Senato. Considerando che anche la Corte Suprema ha una maggioranza vicina ai repubblicani, le elezioni del 5 novembre 2024 attribuiscono al nuovo Presidente una forza di governo che pochi suoi predecessori hanno avuto. Ma soprattutto l’immagine è quella di un America più potente, che si riconosce nel suo slogan “Make America Great Again” (Rendiamo di nuovo grande l’America).
Ciò accade alla vigilia del vertice dei presidenti dei Parlamenti del G20, che si svolge dal 7 all’8 novembre a Brasilia. Il G20è gruppo informale che raccoglie, oltre ai paesi del G7, anche alcuni (non tutti) dei 9 paesi dei Brics (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), che si sta espandendo sotto la leadership cinese: in tutto 19 paesi più l’Unione Europea e l’Unione Africana. Nel G20 convivono l’anima che guarda agli Stati Uniti come punto di riferimento e l’anima anti-occidentale dei Brics, guidata dalla Cina e dalla Russia. Lo scopo dei Brics è costruire un modello alternativo all’ordine liberale costruito dagli Stati Uniti, ponendo fine, in particolare, all’egemonia del dollaro come moneta di riferimento del sistema monetario internazionale, anche se nessuna moneta è in grado in questo momento di concorrere con quella americana. La parola d’ordine dei Brics è il multipolarismo, inteso come modello antitetico all’“unipolarismo” americano.
Aleksander Dugin, autore nel 2013 di un saggio caro a Vladimir Putin dal titolo Teoria del mondo unipolare (tr. italiana Nova Europa 2017), propone di«decostruire l’ultima cultura egemonica superstite» (pp. 32-33), quella Occidentale, per sostituire ad essa l’Eurasia. Il presidente Putin e il leader cinese Xi Jinping, che considerano l’invasione dell’Ucraina un passo verso la fine dell’unipolarismo americano, non hanno come obiettivo un mondo multipolare, ma l’egemonia russo-cinese su un Occidente culturalmente e materialmente disintegrato.
Per Putin, l’Occidente è il regno, a guida angloamericana, delle democrazie liberali, dove domina la cancel culture e l’ideologia “woke”, in una parola il nuovo “Impero del male”, a cui si contrappone la Russia, baluardo dei valori tradizionali. Questa narrazione ha conquistato una parte del mondo conservatore, anche cattolico, ma l’elezione di Trump, dimostra che l’America non è sull’orlo del baratro. La vittoria di Kamala Harris avrebbe rappresentato l’avvento al vertice degli Stati Uniti di una liberal-comunista, decisa ad applicare una politica contro la vita e la famiglia su scala nazionale. E’ proprio a questo disfacimento morale che Donald Trump si oppone, nella convinzione che l’America non sia condannata a un irreversibile declino. Ma quali saranno le conseguenze dell’elezione di Trump sul piano della politica internazionale, e soprattutto in riferimento ai grandi conflitti in corso?
Trump, a differenza della Harris, non è un ideologo e può essere considerato un esponente del “realismo politico” conservatore. Tuttavia l’America ha già conosciuto gli errori della realpolitik nell’era di Nixon e di Kissinger quando, con la storica visita a Pechino del 1972, l’allora presidente degli Stati Uniti si illuse di isolare la Russia avviando nuove relazioni di amicizia con la Cina. Il risultato fu che proprio grazie a questa apertura politica ed economica, la Cina divenne una delle più grandi potenze mondiali, in competizione con gli Stati Uniti.
L’operazione che forse ha in mente Trump è analoga, ma rovesciata rispetto a quella che tentò Nixon. L’idea di Nixon, ispirata da Kissinger, era quella di isolare la Cina separandola dalla Russia, che era allora il nemico primario. Oggi che il nemico principale è la Cina, per isolarla si dovrebbe avviare un patto di amicizia con Putin. In poche parole, in nome della realpolitik, si dovrebbe sacrificare l’Ucraina, costringendola ad una pace ingiusta con il Cremlino. Questo cinismo politico trascura però la dimensione delle idee che guidano la storia. Quando Trump accusa Kamala Harris di essere comunista, mostra di sapere che il comunismo non è morto e sepolto come alcuni vorrebbero far credere. Ma se il comunismo è ancora vivo sul piano nazionale, sarebbe morto su quello internazionale? Eppure in Cina c’è l’obbligo di studiare Marx, Lenin, Mao e lo stesso pensiero di Xi Jinping, che presenta sé stesso e il Partito Comunista Cinese come «atei marxisti inflessibili». In Russia, Putin è un nazionalcomunista che si richiama dichiaratamente a Stalin e vorrebbe ristabilire i confini della defunta Unione Sovietica. L’amicizia di Putin e Xi Jinping ha un fondamento ideologico più forte dei rispettivi interessi politici
In Oriente, la Corea di Kim Jong-un è la longa manus della Repubblica popolare cinese, governata da un dittatore, che rivendica continuamente la dottrina e la prassi del comunismo. Kim Jong ha ribadito nell’ultimo congresso del Partito Comunista che il nemico più grande della Corea sono gli Stati Uniti e ha ordinato di sviluppare missili nucleari terrestri e subacquei, perché il suo paese, deve rafforzare la sua capacità militare contro gli Stati Uniti. E con l’invio, in questi giorni, di soldati nordcoreani in Russia, nella regione di Kursk, la Corea del Nord partecipa, ormai ufficialmente, all’invasione dell’Ucraina. Sul campo di battaglia non saranno certo poche migliaia di nordcoreani a cambiare l’esito del conflitto, tuttavia la loro presenza è fortemente simbolica. I militari della Corea del Nord, che è una proiezione politica della Cina comunista, sono a pochi chilometri dai confini della Polonia e di quelli dell’Europa e della Nato. Come si comporterà Donald Trump di fronte a questa sfida? E’ questo il grande interrogativo che si pone chi ha a cuore il futuro dell’Europa.