Yalta, 1945: il tradimento occidentale
Ottanta anni fa, dal 4 all’11 febbraio 1945 i capi delle tre potenze alleate contro il nazismo, Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill, e Iosif Stalin, si ritrovarono a Yalta, in Crimea, per discutere il futuro post-bellico. I tre uomini politici si erano già incontrati a Teheran nel novembre 1943, ma allora l’Armata Rossa era ancora lontana dal suolo tedesco, le forze inglesi ed americane non erano sbarcate in Francia e si erano arenate in Italia. Ora le grandi potenze che essi rappresentavano, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica, si avviavano alla vittoria e a Yalta si parlò della pace che avrebbe dovuto seguire alla conclusione della guerra.
Yalta era una zona balneare sul Mar Nero, uno dei pochi posti risparmiati dalla furia della guerra, dove tutto era stato organizzato per impressionare i tre grandi. Roosevelt era alloggiato a Livada, una costruzione marmorea dell’epoca zarista, Curchill al palazzo Vorontzov, e Stalin a Koreis Villa, un tempo appartenuta al principe Yussupof. I tre leaders si incontravano solo nelle riunioni e nei banchetti ufficiali, senza avere la possibilità di colloqui privati tra di loro.
Dopo il patto Molotv-Ribentropp dell’agosto 1939 e l’invasione tedesca della Russia, nel 1941, le alleanze internazionali erano cambiate, ma le pretese di Stalin erano immutate. Nel 1939 e nel 1940 il capo del Cremlino aveva ottenuto da Hitler un vasto insieme di territori in Europa orientale. Al vertice di Teheran del 28 novembre-1° dicembre 1943, sia Churchill che Roosevelt avevano accettato come frontiera orientale della Polonia la cosiddetta linea Curzon, un ipotetico confine, favorevole alla Russia, tracciato nel 1920 da Lord Curzon per porre fine alla guerra polacco -sovietica. In un successivo incontro a Mosca, il 9 ottobre 1944, Churchill aveva passato al dittatore sovietico un foglietto di carta con le percentuali delle rispettive zone di influenza nel centro-Europa.
A Yalta, nel 1945, il capo del Cremlino manifestò l’intenzione, non solo di conservare i territori ottenuti dal Terzo Reich, ma di allargare le sue frontiere ad Ovest. Inoltre i governi polacchi e jugoslavi in esilio a Londra, fino ad allora riconosciuti come legittimi dagli Alleati, avrebbero dovuto essere sostituiti da governi comunisti. A Yalta fu anche segnata la sorte dei russi che avevano osato ribellarsi a Stalin. La loro storia è stata documentata da molti libri, tra i quali il fondamentale testo del conte Nikolai Tolstoy Victims of Yalta (Hodder and Stoughton, London 1977), che denuncia il ruolo della Gran Bretagna e degli Alleati nella consegna forzata dei prigionieri di guerra e dei rifugiati sovietici all’URSS. Secondo l’accordo segreto di Mosca del 1944, confermato a Yalta nel 1945, tutti i cittadini dell’Unione Sovietica, tra cui cosacchi, ucraini e cittadini delle Repubbliche baltiche, che avevano appoggiato la Wehrmacht, dovevano essere rimpatriati senza possibilità di scelta. Li attendeva la morte o il Gulag.
Roosevelt si batté anche per la costituzione di un’organizzazione internazionale destinata ad assicurare la pace perpetua al mondo, la futura ONU, che nacque il 24 ottobre dello stesso anno, sotto il controllo di “quattro poliziotti” a cui era assicurato il diritto di “veto” nelle decisioni: Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica e Repubblica di Cina. A Yalta non era stato invitato il “quinto poliziotto”, la Francia, suscitando l’ira del suo nuovo leader il generale Charles De Gaulle.
Come osserva François Furet, Stalin nelle sue richieste incontrò meno difficoltà con i responsabili delle democrazie di quante non ne avesse avute con il dittatore nazista (Il passato di un’illusione, tr. it.,Mondadori, Milano 1995, p. 392). Eppure nel 1943 erano state scoperte le fosse di Katyn, presso Smolensk, dove i tedeschi avevano ritrovato i corpi di circa 22.000 tra ufficiali e civili polacchi, fatti massacrare da Stalin nella primavera del 1940. Inoltre, quando a Yalta Churchill propose uno sbarco alleato nei Balcani tentando di contenervi l’influenza sovietica, Stalin si oppose decisamente e bloccò il piano. «Qui veniamo all’ interrogativo cruciale», ha scritto lo storico tedesco Joachim Fest: «perché quel no di Stalin non chiarì agli occhi delle potenze occidentali i piani egemonici del dittatore sovietico? I leader occidentali furono ciechi» (“La Repubblica”, 28 gennaio 2005).
Se Churchill era consapevole della volontà di espansione della Russia comunista, Roosevelt era gonfio di illusioni. A Yalta, l’8 febbraio 1945, brindando alla salute dell’alleanza tripartita, Stalin disse: «In un’alleanza gli alleati non dovrebbero mai ingannarsi a vicenda. Forse questo è ingenuo? I diplomatici esperti potranno dire: “E perché non ingannare il mio alleato?”. Ma io, da uomo ingenuo, penso che sia bene non ingannare il mio alleato anche se è uno sciocco» (Winston Churchill, La II Guerra mondiale,vol. VI. Trionfo e tragedia, tr. it., Mondadori, Milano 1953, p. 47). Stalin si limitò a concedere ai suoi alleati una dichiarazione congiunta sull’Europa liberata che prometteva libere elezioni e l’istituzione della democrazia nell’Europa orientale, ovviamente secondo il concetto che egli aveva della democrazia. Di ritorno negli Stati Uniti, Roosevelt espresse al Congresso la sua convinzione che fossero state poste le basi di un’era di “pace permanente” che avrebbe superato definitivamente il classico concetto diplomatico dell’equilibrio delle forze. Il presidente americano espresse un giudizio benevolo su Stalin, attribuendo le sue qualità all’educazione che egli aveva ricevuto in seminario: «Credo gli sia stato instillato come deve comportarsi un gentiluomo cristiano» (Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, tr. it. Sperling, Milano 2004, pp. 319-320).
Fin dall’aprile del 1945, due mesi dopo Yalta le violazioni della Dichiarazione divennero flagranti soprattutto nei confronti della Polonia. Dopo la guerra gli americani ammisero di essere stati ingannati a Yalta, ma essi erano disposti ad essere ingannati e i russi non potevano fare altro che ingannarli. Eppure, come osserva Joachim Fest, Washington e Londra non erano obbligate dalla situazione a cedere al Cremlino l’intera Europa orientale. A guerra in corso, esse avevano ancora in pugno un formidabile strumento di pressione: le forniture militari soprattutto americane, senza cui l’Armata rossa non avrebbe potuto combattere e avanzare. Se solo avessero minacciato il blocco di quelle forniture, la storia forse avrebbe preso un corso diverso. Fest ricorda quanto diceva Pietro il Grande quando mandava la sua élite a studiare a Potsdam, a Stoccolma o a Londra: la Russia doveva imparare dall’Occidente per poi voltare le spalle ai suoi valori. Questo insegnamento dovrebbe essere sempre tenuto presente da chi si lascia sedurre troppo facilmente dagli Zar del Cremlino.
La Seconda guerra mondiale era scoppiata per difendere la libertà e l’indipendenza della Polonia, ma a Yalta i leader alleati sacrificarono i confini della Polonia, il suo governo legittimo e le elezioni libere per garantire una illusoria pace con l’Unione Sovietica. L’incontro in Crimea, che avrebbe dovuto assicurare un futuro di pace all’umanità, gettò invece le fondamenta di quella cortina di ferro che avrebbe diviso l’Europa fino al crollo del Muro di Berlino nel 1989.
Gli accordi di Yalta consacrarono l’espansione imperialista della Russia e divennero, come la pace di Monaco del 1938, il simbolo di quella politica della resa che gli europei centro-orientali definiscono il «Western betrayal», il tradimento occidentale. Questa disponibilità ad essere ingannati, che combina un ottimismo fuori misura con un cinico realismo, è un rischio che ancora incombe e che va ricordato nel momento in cui il presidente americano Donald Trump annuncia di essere in grado di imporre all’Ucraina la pace con il suo aggressore russo. Quali saranno le condizioni di un accordo, che non vede i più diretti interessati, gli ucraini, al tavolo delle trattative? La pace è un bene, ma la storia dimostra che perdere la pace è peggio che perdere una guerra.